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L'art. 111 della Costituzione e il giusto processo
Si indaga se la disciplina positiva del processo civile sia rispettosa del diritto ad un giusto processo, attraverso alcuni istituti processuali che sembrano muoversi in una prospettiva opposta, con l'obiettivo di appurare se essi trovino giustificazione in qualche diritto fondamentale garantito dalla Costituzione, oppure si pongano illegittimamente in contrasto con il diritto costituzionale ad un giusto processo e ad una giusta decisione.
Emerge, dalle norme costituzionali dei principali Paesi di democrazia classica una opzione ideologica di fondo la quale, nell’ambito specifico delle garanzie costituzionali attinenti alla giustizia, mira a consacrare stabilmente determinati fondamenti etici del processo.
Questa opzione ha trasformato, nel tempo una garanzia di legalità procedurale in una più ampia garanzia di giustizia sostanziale: le garanzie formali del procedimento non sono mai fini a se stesse, ma esse devono sempre concorrere, sul piano istituzionale, al conseguimento di risultati decisori coerenti con i valori di equità sostanziale e di giustizia procedurale consacrati dalle norme costituzionali o da quelle internazionali e che è compito fondamentale del processo attuare compiutamente. Il valore della giustizia della decisione deve essere considerato un elemento necessario del diritto costituzionale ad un giusto processo: il sacrificio di tale valore sarà giustificato soltanto se posto in essere in nome di un diritto costituzionalmente garantito con esso in contrasto.
Il primo aspetto della disciplina positiva del processo civile che sembra in palese contrasto con il diritto ad una decisione fondata su fatti veritieri riguarda la mancanza, fra le regole processuali, di un dovere per le parti di dire la verità; la mancata previsione di tale dovere ha infatti come conseguenza di rendere scarsamente utilizzabile il sapere delle parti ai fini della ricostruzione dei fatti nel processo, allontanando la probabilità di giungere a decisioni giuste ed infatti il problema di un dovere di verità delle parti nel processo civile si presenta strettamente collegato, anche se non necessariamente coincidente, con l’istituto della testimonianza della parte.
Nel nostro ordinamento non sembra sussistere, o almeno questa è l’opinione di parte della dottrina, un obbligo per le parti di dire la verità. A tal proposito pare importante distinguere tra un obbligo della parte di dire la verità in sede di allegazione dei fatti al processo, e dovere della parte di dire la verità come testimone, a titolo informativo, al fine di rappresentare i fatti al giudice. Rimane quindi da interrogarsi sul diverso significato che può assumere un obbligo di verità per le parti in sede di allegazione, ed un analogo obbligo in relazione alle dichiarazioni testimoniali utilizzabili in sede istruttoria dal giudice. Per quel che concerne la fisionomia dell'esame condotto dal presidente, è logico ritenere che tale organo moduli le proprie domande, ai fini della completezza dell'accertamento processuale, sulla base dei risultati conseguiti all'esito dell'escussione probatoria conclusasi. Il range delle domande del presidente non deve restare rigorosamente ristretto nell'ambito delle circostanze indicate dalle parti nella lista testimoniale depositata ai sensi dell'art. 468 comma 1 c.p.p., ma non può comunque essere più ampio di quello tracciato dai quesiti precedentemente formulati dalle parti e dalle risultanze dell'esame condotto in udienza.
Per quel che riguarda poi i fatti secondari o probatori, esso comporterebbe l’obbligo per la parte di dire la verità come qualsiasi altro testimone, poiché non si può dubitare del fatto che la previsione di un’obbligazione per le parti di dire la verità, sia in sede di allegazione che in sede di dichiarazioni testimoniali, avrebbe come effetto di rendere più probabile l’accertamento della verità dei fatti e quindi il perseguimento di decisioni giuste, come previsto dalla lettura che abbiamo dato del concetto di giusto processo.
Sembra peraltro opportuno verificare se la previsione di tale obbligo si ponga in contrasto con qualche principio fondamentale del processo civile posto a protezione di diritti individuali costituzionalmente garantiti.
Il secondo aspetto in relazione al quale si intende verificare la conformità con il diritto costituzionale ad una decisione fondata su fatti il più possibile veritieri riguarda l’istituto, previsto dall’art. 210 e ss. c.p.c., dell’ordine di esibizione di prove, sia nei confronti della parte, che dei terzi estranei alla causa, istituti ricondotti, più o meno espressamente, al medesimo principio del nemo tenetur contra se edere.
Poiché nel processo non si può mai raggiungere la certezza della verità dei fatti posti a fondamento della decisione, è necessario che la decisione sia fondata su una ricostruzione il più attendibile possibile dei fatti, supportata dal maggior numero di elementi a disposizione del giudice per vedere confermata l’ipotesi di decisione; poiché nel processo gli elementi di conferma o confutazione di un’ipotesi, sono costituiti dalle prove, ed il giudice decide qual è l’ipotesi più attendibile in base alle prove di cui dispone, ne consegue che tanto maggiori saranno i mezzi di prova disponibili, tanto maggiore sarà il grado di approssimazione alla realtà dell’ipotesi considerata più attendibile.